In un precedente articolo su questo sito sostenevo che la ricerca pubblica italiana è saldamente nelle mani degli universitari che dominano incontrastati non soltanto nella casa propria accademica, ma anche in tutto il settore della ricerca pubblica. Basta farsi un giretto nei siti degli enti pubblici di ricerca per verificare che gli incarichi di responsabilità sono praticamente tutti nelle mani di docenti universitari. Non ci sarebbe nulla di male se vi fosse un ragionevole equilibrio tra competenze interne ed esterne agli enti, una osmosi di competenze bidirezionale con l’università, ma il fenomeno è totalmente squilibrato, a senso unico. E’, per esempio, ben noto che i ricercatori pubblici sono di fatto emarginati dei corsi di dottorato di ricerca a cui contribuiscono in maniera spesso determinante – e per mettere rimedio a questa condizione di minorità sta opportunamente operando il presidente del CNR.
Attualmente assistiamo all’ennesima prova di questo colonialismo in occasione dei concorsi universitari, esercizio che tradizionalmente magnetizza tutte le migliori energie dei docenti, alcuni dei quali hanno l’onere e l’onore di decidere a chi dare la cattedra tra i candidati che hanno i titoli migliori e, occasionalmente, tra i propri allievi, conoscenti, parenti e affini.
Il meccanismo è regolato dal decreto direttoriale 27 giugno 2012 n. 181 del MIUR che riguarda la formazione delle commissioni nazionali per il conferimento dell’abilitazione alle funzioni di professore universitario di prima e seconda fascia. Il decreto è firmato dal Direttore generale per l’università, lo studente e il diritto allo studio universitario del MIUR, ma è ovviamente farina del sacco degli universitari che, tradizionalmente, dominano anche nel MIUR con la loro presenza in organi istituzionali quali il CUN e l’ANVUR, in potenti lobby come la CRUI, oltre che attraverso tutta una serie di posizioni consulenziali.
Una prima osservazione riguarda la scelta strategica del MIUR di selezionare i professori universitari non in base alla loro capacità di insegnare, ma alle loro prestazioni scientifiche.
Il professore universitario è una persona erudita esperta in un settore o in una disciplina che esercita attività di insegnamento nell’ambito dell’istituzione universitaria nel quadro di uno specifico progetto educativo. Il meccanismo messo in piedi mira invece non ad individuare buoni docenti, persone che sappiano educare le nuove generazioni, che siano dei maestri di sapienza, di virtù e di vita, ma buoni ricercatori. E’ una specie di sineddoche: per giudicare una persona se ne valutano soltanto alcune caratteristiche. E’come se per assumere il cuoco per allestire un pranzo di nozze la selezione dei candidati si basasse soltanto sui primi piatti, prerequisito importante ma insufficiente per garantire la riuscita del simposio, dall’antipasto, al dolce alla presentazione dei piatti sul tavolo degli invitati. In fondo, cosa se ne fa uno studente, che secondo i canoni largamente accettati nella vulgata neoliberista rappresenta il primario “cliente” dell’università, di un bravo topo di laboratorio se non sa insegnare?[1]
Una seconda osservazione emerge dalla lettura dell’art. 1 che prevede che le commissioni di selezione siano composte da cinque commissari: “Quattro dei membri di ciascuna commissione sono sorteggiati all’interno di una lista di professori ordinari delle università. Il quinto commissario è individuato mediante sorteggio all’interno di un’apposita lista di studiosi od esperti in servizio presso università di un Paese aderente all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE)[2], diverso dall’Italia, predisposta dall’ANVUR”. Dunque sarà possibile che nelle commissioni siedano studiosi o esperti (quindi non docenti) quali i research professors di università straniere che svolgono soltanto attività di ricerca, mentre i ricercatori degli enti pubblici italiani, che fanno ricerca ad un livello certamente non inferiore a quello dei colleghi universitari e che molto spesso insegnano nelle università, saranno esclusi.
Se l’università, pilotando le procedure del MIUR, voleva assumere ricercatori per regolare i conti tra i docenti “buoni”, cioè quelli che lavorano con impegno e che mandano avanti la baracca, e quelli “marginali”, che lavorano poco, perché ha chiuso le porte ai ricercatori degli enti pubblici che, per definizione, fanno quel mestiere, e le ha aperte agli omologhi stranieri? Ancora una volta siamo di fronte ad una chiusura corporativa che si aggiunge al provincialismo nostrano. Ma, soprattutto, siamo di fronte alla pervicace riaffermazione del potere degli accademici nel settore della ricerca pubblica nazionale in dispregio delle migliaia di talenti disponibili sotto casa[3].
[1] Tutti abbiamo esperienza di persone che eccellono in una delle due attività, la didattica e la ricerca, ma che sono negate nell’altra. Vi è poi il fenomeno dei docenti che sono molto impegnati nella ricerca e che, in ragione del potere di cui dispongono, eludono i propri doveri didattici affidandoli ai “meno potenti” che, a loro volta, in un meccanismo perverso, non riescono a fare ricerca a causa dell’eccessivo carico didattico.
[2] Paesi come la Russia, la Cina, l’India, il Sud Africa, il Brasile ed altri rimangono fuori. Non se ne comprende la motivazione.
[3] La scelta di inserire nelle commissioni studiosi ed esperti stranieri andrebbe traguardata anche nel contesto della spesa pubblica e della spendig review che verrà approvata dal governo nei prossimi giorni. Mentre i costi per i viaggi dei ricercatori italiani sarebbero verosimilmente di entità modesta, quelli degli studiosi od esperti dei paesi OCSE (fortunatamente non di quelli molto lontani che non fanno parte dell’Organizzazione!), saranno certamente ben più elevati.
